Francesco De Gregori chi è: età, altezza, moglie, figli e vita privata

L’identikit di Francesco De Gregori

Francesco De Gregori è nato a Roma il 4 Aprile 1951 da Giorgio, bibliotecario e da Rita Grechi, insegnante di Lettere, ed è alto ben 192 cm per 88 kg di peso. Si è diplomato al Liceo Classico Virgilio e ha inizia la sua carriera di cantautore e musicista seguendo le orme del fratello maggiore Luigi, che si esibiva con il nome d’arte Ludwig, diventando ben presto uno degli artisti contemporanei più apprezzati e significativi. Il progetto iniziale era quello di diventare filosofo, ma è poi passato in secondo piano. Nondimeno De Gregori, bibliofilo convinto, non ha abbandonato gli studi: ha superato tutti gli esami universitari previsti senza però arrivare alla tesi di laurea.

Francesco De Gregori, vita privata: moglie Alessandra e figli

Francesco De Gregori è sposato dal 1978 con Alessandra. Durante un’intervista con il settimanale Vanity Fair il cantante ha rilasciato questa dichiarazione sulla sua relazione con la moglie: “Non mi sono mai chiesto quanto potesse durare. E, comunque, non va neppure bene che uno si sposi pensando: ‘Che sorpresa se va avanti per tanto’. L’ho fatto perché ero innamorato. Quindi, ero assolutamente convinto che saremmo rimasti insieme.” Sembra, infatti, che dopo tutti questi anni di matrimonio il loro amore non si sia mai spento. Durante questi 39 anni di matrimonio hanno dato alla luce due figli, gemelli per l’esattezza: Federico e Marco.

Francesco De Gregori Intervista

Nelle tue canzoni ci sono molti riferimenti all’infanzia. Hai cercato di mantenere uno sguardo candido?

Non ho cercato di mantenerlo, ce l’ho, è un dono. Ho un atteggiamento di apertura e comprensione nei confronti degli altri, anche per certi tipi umani con cui non ho nulla a che spartire. Mi è successo di scoprire ricchezze spirituali in tutti. Questo candore mi permette di vivere in maniera non sospettosa.

Le tue canzoni tendono ad attirare un sovrappiù di analisi. Come te lo spieghi?
Perché quando ti innamori di una canzone, di un libro, di un quadro inevitabilmente ne vuoi sapere di più. Capita anche a me. Cerchi di capire che cosa vogliono dire studiando la biografia, il periodo storico, il contesto. Questo lavoro viene fatto anche sulle mie canzoni e spesso viene da ridere perché mi si attribuiscono cose strane.

Per esempio?
Si diceva che Buonanotte fiorellino fosse dedicata alla mia prima moglie morta nella strage di Ustica, che però è avvenuta molti anni dopo. Ogni tanto trovo interpretazioni, anche affettuose, che non c’entrano niente con quello che volevo dire.

È che a volte, quando ascoltiamo le canzoni, cadiamo in una trappola mentale che ci fa pensare che siano autobiografiche.
L’autobiografia c’è, ma le canzoni non sono una radiografia della tua vita. Per esempio, non posso dire di avere scritto Rimmel pensando a una sola persona. C’è l’autobiografia, ma è tutto mescolato. Non puoi raccontare la tua vita in una canzone: sarebbe noiosa, la tua vita non interessa a nessuno, interessa la parte che è condivisa dagli altri.

Che cos’è per te l’originalità?
Non è creare qualcosa che prima non esisteva. L’originalità assoluta non esiste, tutti creano elaborando materiale esistente. Prendi quello che ti piace, lo cambi un po’, lo filtri attraverso la tua storia personale, la tua sensibilità, la tua cultura musicale. E viene fuori inevitabilmente qualcosa di diverso. Come si usa dire, siamo nani sulle spalle dei giganti.
Poi questa operazione di prelievo, o di copiatura, può venire bene oppure male, può essere maliziosa oppure onesta.
Quando mi metto a scrivere anche solo una lettera a un amico non mi posso spogliare da tutto quello che ho letto, visto, ascoltato. Vale anche nell’arte. Se parli con Mimmo Paladino ti dirà: vedi questa linea? È Giotto.

E poi, il fatto di sapere che i Led Zeppelin o Bob Dylan hanno copiato intere parti delle loro canzoni non ha alterato il nostro giudizio sull’importanza della loro opera.
La musica folk e blues sono canovacci su cui si può scrivere di tutto. In Italia non è successo perché non abbiamo grande conoscenza della nostra musica popolare, che in ogni caso si presta di meno a essere rielaborata in modo affascinante. Immagina qualcuno che metta parole nuove su un canto delle mondine o su Bella ciao: gli salterebbero tutti addosso.
In altre culture questo tipo di operazione è normale. E lo è anche nella musica classica: molti, da Čajkovskij a Verdi, hanno usato temi popolari. Il prelievo è la base dell’arte.

Con il passare degli anni diventa più difficile scrivere? Sì.

Per la paura di ripeterti?
Sì, un po’ mi scoccia. Quando lo faccio me ne dispiaccio e penso: questa cosa l’avevo scritta meglio vent’anni fa. Ma pensare di scrivere canzoni nuove è difficile soprattutto perché succede il contrario di quel che accadeva nel ’75, quando uscì Rimmel. C’era allora un pubblico nostro coetaneo che aspettava le nostre canzoni e ne faceva una specie di bibbia quotidiana, anche esagerando.
C’erano un linguaggio e delle aspettative condivise. Eravamo tutti disposti a essere avanguardia, sia noi che scrivevamo sia quelli che ascoltavano.
Oggi il tipo di musica che faccio io e che fanno anche i cantautori che vendono più di me suscita una risposta molto più blanda.


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