La storia di Pier Paolo Pasolini chi è: causa morte, eredità, compagno, figli, film e vita privata

Nel suo passaporto, sotto la categoria della professione, ha detto scrittore. Era un regista famoso, sì. Ma soprattutto Pier Paolo Pasolini è stato un uomo che ha dedicato la sua vita, che si è conclusa bruscamente una notte del 1975, alla scrittura. E sebbene per più di un decennio l’italiano si sia concentrato sul cinema, ha affermato di non aver mai abbandonato la letteratura: “Durante i 12 o 13 anni in cui ho fatto film, ho continuato a scrivere poesie, e soprattutto saggi e critiche. (…) No, non ho rinunciato alla letteratura. Quello che ho completamente abbandonato è il romanzo. Non riuscivo a scrivere o nemmeno a pensare a una pagina di storia. È chiaro che raccontare storie usando il cinema mi ha impedito di scriverle”, ha riconosciuto in una delle ultime interviste rilasciate a un media non italiano, la rivista Anteo.

Era cresciuto in una famiglia conservatrice, capeggiata da Carlo Alberto Pasolini, un soldato italiano che suo figlio chiamava “un grande nemico”, e presto si avvicinò alla letteratura di Dostoevskij e Tolstoj, così come alla poesia del francese Arthur Rimbaud, che indirizzò definitivamente il suo pensiero. Si avventurò nella poesia all’età di sette anni e alla fine studiò lettere all’Università di Bologna. Pasolini fondò anche l’Accademia Friulana di Lingua, che studiò quella lingua romanza dell’Italia nord-orientale.

Dopo il suo omicidio, nacque la leggenda con la polemica incisa nella sua aura, figura scomoda, sia per la sua funzione intellettuale, senza peli sulla lingua per denunciare la tessitura del potere e l’inevitabile omologazione della società occidentale, sia per la sua omosessualità, cruda e senza coperture, atto di immenso coraggio nel suo tempo, deplorevole per molti privilegiando nell’amore i ragazzi più giovani, come se la loro esistenza si fondesse con il loro lavoro attraverso i ‘ragazzi di vita’ della periferia della Città Eterna.

Il ritardo ispanico nella vicenda sarà parzialmente modificato questo 2022 in occasione del centenario della sua nascita, domenica 5 marzo 1922 a Bologna, figlio di un militare e di un insegnante di scuola elementare, essenziale per tutto il viaggio del poeta.

Il momento clou delle commemorazioni nel nostro paese sarà la biografia, recente Premio Comillas, di Miguel Dalmau. ‘Pasolini, l’ultimo profeta’ (Tusquets), è emerso secondo il suo autore da un embrione degli anni Sessanta, quando a Barcellona i film del regista italiano sono stati presentati in anteprima nella leggendaria Settimana Internazionale del Cinema a Colori, un’oasi di libertà e una via di fuga da guardare durante il tardo regime franchista film censurati, purtroppo disponibile solo per una scarsa élite culturale.

Tra questi, Dalmau ricorda come Theorem abbia avuto un grande impatto su suo padre. Il suo adattamento testuale, pubblicato questo mese dalla casa editrice Altamarea, ha mostrato come l’irruzione di un angelo, interpretato da Terence Stamp, abbia sconfitto la pace di una famiglia borghese, simboleggiata dalla sua tenuta paesaggistica, l’euforia del capitalismo del boom economico del dopoguerra si è trasformata in tragedia a causa di quel personaggio misterioso, archetipo indiretto della missione pasoliniana. , consistente nel mettere il dito sulla ferita del sistema e spremerlo molto duramente per catapultare in superficie tutte le perversioni e i fili della sua logica oppressiva, come ad esempio quando nel marzo 1968 scrisse la poesia Il PCI ai giovani, dove criticò gli studenti ribelli dell’Università perché i poliziotti, autentici figli del proletariato, non potevano accedere a quel tempo al tempio della conoscenza screditato.

La polemica fin dall’inizio

Tutta la rabbia contro Pasolini dai più alti livelli deve essere compresa dal contesto geo-politico italiano del secolo scorso, prima con il fascismo, il nostro protagonista vide la luce sei mesi prima della Marcia su Roma, poi con la Democrazia Cristiana, entrambi garanti di una morale conservatrice, formulata da altri parametri nel PCI, da cui Pasolini fu espulso nell’ottobre del 1952, anche se il fattore scatenante è stata la sua accusa di aver perpetrato atti osceni con minori durante una processione religiosa a Pordenone. I puristi della questione vedono nella condanna la causa dello sbattere della porta, mentre altri più lassisti, e forse più sensazionalisti, la attribuiscono al rifiuto frontale contro l’omosessualità, cosa sofferta da Jaime Gil de Biedma con il Partito in Spagna.

Comunque sia, l’evento ha portato all’addio del giovane dal suo paradiso terrestre, Casarsa della Delizia, cittadina friulana dove è approdato dopo un percorso molto accidentato causato dalla professione paterna. Pasolini era un nomade, uno studente di arti e lettere, un poeta in lingua friulana, un recuperatore di essa nella sua Academiuta, direttore della rivista Stroligut, drammaturgo incipiente e scrittore di due romanzi, Amado Mío e Atti Impuri (Seix Barral) validi per sintetizzare quegli anni di formazione. Per Miguel Dalmau, questa versatilità, estesa a posteriori con il cinema, genera la più grande sfida possibile per un biografo, poiché non esiste un carattere uguale, di queste caratteristiche, negli ultimi settant’anni; secondo il vincitore del Premio Comillas, era un uomo del Rinascimento immerso nel XX secolo con altri volti come il marxista, l’eretico, il cristiano, il provocatore intellettuale o l’omosessuale eccessivo.

Dopo quell’addio forzato alla falce e martello, la famiglia Pasolini emigrò ai margini di Roma. Quella periferia fece assumere a Pasolini un legame linguistico con la sua nativa Casarsa per discorso dialettale, aggiungendo qui una povertà invisibile nei media per essere il terzo mondo del primo mondo, caserme indegne, a volte con case senza il suo tetto corrispondente, o una città nella città che incarna in sé l’intero mondo terrestre.

Pasolini alternò dal 1950 la compagnia dei borgatari, gruppi con gesti disapprovati dall’opinione pubblica, i suoi studenti di una scuola di Ciampino e le piccole cappelle del mondo culturale della capitale italiana, molto mescolati tra cinema e letteratura mentre l’industria del grande schermo viveva un momento prospero con la sbornia del neorealismo. Storie di diseredati potrebbero ancora essere vendute al pubblico, sì, con un altro mordente e pasoliniano contributo di alto livello in lungometraggi disparati come la commedia Marisa la Civetta, di Mauro Bolognini o classici conosciuti quasi solo da cinefili come Notte Brava o la straordinaria ‘Una giornata Balorda’, entrambi dello stesso regista. La sua opera più celebre come sceneggiatore è quella de Le notti di Cabiria, di Federico Fellini, in vis di specialista della periferia, un mondo sotterraneo per il genio di Rimini, il cui idillio con Pasolini si raffreddò dopo ‘La Dolce Vita’.

Un nuovo linguaggio per una nuova modernità

Questo progressivo accesso a Cinecittà si unì alla sua amicizia con altri scrittori, come Alberto Moravia, che lo definì ai funerali del 1975 come intellettuale civico, o il poeta Attilio Bertolucci. Più tardi suo figlio Bernardo avrebbe agito come assistente alla regia nel film d’esordio di Pasolini, Accattone, ricordando le riprese dalla sensazione di assistere all’invenzione di un nuovo linguaggio.

Prima di aggiungere altri strumenti alla sua arte, poiché non ha mai smesso di scrivere, eccelleva come poeta, ‘La rivoluzione del mio tempo’ (nordico) e ‘Le ceneri di Gramsci’ sono capolavori di versi e di pensiero, e ha scardinato l’establishment con la pubblicazione dei suoi due romanzi dai margini romani, ‘Ragazzi di Vita’, tradotti in nordico come ‘Chavales del Arroyo’, e ‘Una vita violenta’ (Seix Barral), rozzi affreschi di miseria coperti da un immenso velo interessato dal centro.

Entrambe le narrazioni, dal 1957 al 1959, gli valsero l’odio non solo dell’estrema destra, accumulandosi fino al suo omicidio, forse il più grande mistero italiano accanto a quello di Aldo Moro, decine di cause legali, molte delle quali surreali, come la rapina di un distributore di benzina con una pistola d’oro, e altre di un’altra pericolosissima idiosincrasia, come la lotta al Cinema Barberini durante la prima di Accattone il 23 novembre 1961, quando un gruppo di neofascisti interruppe la proiezione e andò per l’intellettuale.

‘Ragazzi di Vita’ e ‘Una Vita Violenta’ sono il dittico che prefigura le debutte cinematografiche in Accattone e Mamma Roma. Il primo è il lirismo della fotografia di un clamoroso bianco e nero come immagine di una trama di redenzione fallita. Accattone significa mendicante e la sua evoluzione, figlio del borgate, aspira solo ad abbandonare il suo nulla di magnaccia o di ladro. A differenza di altri film sulle periferie, qui la sceneggiatura vola tra riferimenti a Dante e la musica della ‘Passione secondo Matteo’, di Johann Sebastian Bach.

Accattone brama tutto l’oro del mondo, come i faraoni, e muore al confine tra le due realtà romane con un certo carattere cristiano, ridondante in Mamma Roma, con una stellare Anna Magnani e l’impossibilità di fare un vero e proprio salto nella scala sociale in un piano dei nuovi blocchi dove finisce Roma, ancora una svolta. Le grida di Mamma Roma, una prostituta con abbastanza coraggio per liberarsi dal suo chulo e sognare una maturità decente, convergeranno con quel culmine del figlio come un dipinto all’interno della celluloide, in questo caso il ‘Cristo’ di Andrea Mantegna.

In Accattone e Mamma Roma sperimenta un linguaggio dalla beata ingenuità infantile, con tanto successo da delineare molti stili e temi della sua produzione, proseguita nei primi cinque anni degli anni Sessanta come un gioco, sempre più serio, con documentari alla ricerca di interviste italiane sulla sessualità o l’ossessione per il Nazareno nell’esilarante mediometraggio ‘La Ricotta’, con Orson Welles e il suo cameo stellare, e il bellissimo ‘Il vangelo secondo Matteo’, premiato dall’Ufficio Cattolico e valutato dal Vaticano come il miglior film su Gesù nella Storia del Cinema.

A Barcellona, dice Dalmau, fu fonte di pettegolezzi per il protagonismo di Enrique Irazoqui, una scoperta casuale e una rivelazione per Pasolini, esaltato dopo averlo visto aver individuato quasi per caso il suo Gesù Cristo in quel leader dell’Unione Universitaria clandestina di Barcellona.

Dopo ‘il Vangelo’, l’autore si recherà in un intervallo precedente allo zenit della sua profondità per analizzare il suo presente con parole e armi inedite cogliendo nei suoi film e scritti una critica estrema della contemporaneità, alla deriva esaltando l’iperconsumo come un nuovo fascismo, cosa chiave per Dalmau, all’interno di una trasformazione antropologica degli italiani, indotto dal Palazzo, quel potere così solidale di una tabula rasa con il passato senza mostrare alcuna capacità di comprendere le proteste del presente.

Eredità

Il 68 italiano ebbe un impatto maggiore dei francesi per le sue ripercussioni negli anni Settanta, i cui anni di piombo potevano ben avere il loro punto di partenza alla fine del decennio precedente, genesi di un disincanto delle minoranze a sinistra del PCI con le Brigate Rosse come braccio armato della rivoluzione e la sua replica attraverso il Terrorismo di Stato di Piazza Fontana e l’alba dei gruppi neofascisti, con buone reti di reclutamento tra i giovani dell’alta borghesia, come il poeta denunciò poco prima della sua scomparsa.

La frenetica demolizione delle fondamenta prevalenti ha qualche intervallo poetico come Medea o Edipo Re, ma è devastante dal momento che Teorema e il bestiale Porcile, con la borghesia e la classe politica in bianco, qualcosa di più prorument durante quegli ultimi settanta nell’elegante virulenza dei suoi articoli, molti dei quali raccolti in ‘Scritti Corsari’ e ‘Lettere Lutterane’ (Trotta), a mio modesto parere un diario di bordo per comprendere la rilevanza della sua eredità. Secondo Miguel Dalmau, questo si nutre di un indubbio dono profetico annusando molto chiaramente il genocidio culturale dell’omologazione, la morte della diversità per eliminare il diverso, la normalizzazione del fascismo dall’iper-consumismo, il fascismo degli antifascisti, essendo lo stesso l’estrema destra non richiede uniformi per accamparsi per strada, e la vittoria della pubblicità all’interno di un programma per elevare la gioventù alla quintessenza, perché, dopo tutto, conclude, è indispensabile per la macchina di consumo capitalista.

La sua trascendenza istantanea si concentrava sull’esposizione dei corpi, motivo della successiva abiura del suo autore.

Negli anni Settanta, il cinema di Pasolini è riconosciuto per la sua Trilogia della Vita, composta dal ‘Decameron’, ‘I racconti di Canterbury’ e ‘Il fiore delle mile e una notti’. La sua trascendenza istantanea si concentrava sull’esposizione dei corpi, motivo della successiva abiura del suo autore, perché secondo i suoi criteri, l’establishment aveva spogliato queste immagini del loro potere omologandole, rendendole innocue, come molti dei proclami del 68, schiacciate e sedate dalla pubblicità.

Questo Pasolini crepuscolare è ossessionato da quello sterminio culturale. Cominciò a capirlo negli anni Sessanta, quando non poté girare Il Vangelo secondo Matteo in Palestina perché il paesaggio originale era stato annientato. Nei villaggi italiani sulla cima di una collina il verde è stato rimosso con cemento e altro cemento. L’umanità camminava come ipnotizzata, piuttosto inconscia, verso lo stesso percorso, attraverso il nuovo fascismo. In ‘Saló’ o ‘le 120 giornate di Sodoma’, il suo testamento cinematografico, ha voluto spingere al limite la sua sfida alla censura. Il contesto in quei sonagli fascisti di Saló è uno specchio del 1975.

Il film è uscito dopo l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Quella sera ha cenato con Ninetto Davoli e altri amici e quando le campane hanno suonato alle dodici ha guidato la sua Alfa Romeo ai piedi di Termini. Prese Pino Pelosi, cenò con lui in un ristorante affacciato sul Tevere e parcheggiò, sempre secondo la versione ufficiale, nell’Idroscalo de Ostia, oggi mausoleo troppo sbiancato, poi una radura accanto alle baracche. I due litigarono e il più giovane, dopo non essere sceso a compromessi prima di certi processi di Pasolini, si arrabbiò per aver investito quel famoso uomo di fazioni così complicate, ben interpretato da William Dafoe in Pasolini, da Abel Ferrara.

Non sapremo mai come sarebbe stato il Pasolini post-1975. Il suo romanzo ‘Petrolio’ approfondisce i suoi attacchi ai meccanismi della cima della piramide, sia quelli famigerati che altri più sotterranei. Saló può portare a errori intorno a quello troncato domani, come se la lucidità del discorso si scontrasse con una mancanza di radicalismo formale, qualcosa negato da articoli come la scomparsa delle lucciole, un’altra metafora nella lista degli olocausti previsti e dimostrati. A un secolo dalla sua nascita e quasi a metà della sua morte, il vuoto più clamoroso è quello dello stesso Pier Paolo Pasolini, l’ultimo mohicano di una solida intellighenzia. Adiettandolo come civico lo inquadra, nonostante tutte le sue speculazioni di diversi stati d’animo ed estetiche, a livello di strada, ignaro degli attuali fuochi d’artificio sull’identità e stagionato nella diagnosi di una crisi torrida, la nostra, intravista con scrupolo dall’italiano nella sua non innocente alba.


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